Bancarotta fraudolenta commessa con dolo o per effetto di operazioni dolose. Il discrimen tra le due fattspecie e gli indici di sussistenza del dolo eventule.
In tema di bancarotta fraudolenta, la giurisprudenza si è spesso soffermata sulla distinzione tra le ipotesi delittuose contemplate all’art. 223, comma 2, L.Fall.: l’una integrata laddove il fallimento sia stato cagionato “con dolo”; l’altra, qualora detto evento sia scaturito dalla commissione di “operazioni dolose”.
Con recente sentenza – n. 16111 dell’8 febbraio 2024 – la Suprema Corte ha ribadito la piena sovrapponibilità sotto il profilo materiale delle due fattispecie, individuando il principale discrimen nel coefficiente psicologico: “nell’ipotesi di causazione dolosa del fallimento, l’evento è voluto specificamente, mentre, nel fallimento conseguente a operazioni dolose, esso è solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio che esso si verifichi”.
La locuzione “con dolo” va pertanto intesa con riferimento alla definizione di cui all’art. 43 c.p., sicché “il fallimento deve essere previsto e voluto dall’agente come conseguenza della sua azione od omissione: detta espressione si riferisce ai soli casi in cui il fallimento della società sia stato l’obiettivo avuto di mira dall’agente (dolo diretto di evento)” (Cass. Pen., Sez. V, n. 405 del 19/10/1984, dep. 1985, Gerii, Rv. 167402).
Le operazioni dolose, all’opposto, attengono alla “commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge da parte dell’organo amministrativo ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria dell’impresa, e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente, non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione, che può anche non esserci), bensì da un fatto di maggiore complessità riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria causalmente orientata all’esito divisato” (Cass. Pen., Sez. V, n. 17690 del 18/2/2010, Rv. 247316).
Se dunque la prima fattispecie esige il ricorrere di un dolo diretto di evento, la seconda è a dolo eventuale: in altre parole, non è richiesta la volontà diretta dell’agente a provocare il dissesto, ma costui deve aver accettato la probabilità che il fallimento si verifichi quale conseguenza delle operazioni dolose poste in essere.
Per agevolare l’interprete nell’accertamento del dolo eventuale, la Corte di legittimità a Sezioni Unite, con la sentenza Thyssenkrupp n. 38343/2014 ha individuato una serie di c.d. “indicatori”, segnatamente: “a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione, nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (c.d. prima formula di Frank)”.
Applicando i suddetti criteri, è dunque possibile dimostrare la carenza di dolo mediante la valorizzazione di iniziative virtuose dell’imprenditore volte a scongiurare il rischio del fallimento, quali – a mero titolo esemplificativo – la proposizione di un piano di concordato preventivo di tipo liquidatorio, l’offerta di garanzie reali tese ad assicurare il soddisfacimento delle pretese creditorie o l’astensione dal compiere operazioni che possano scalfire le consistenze patrimoniali destinate al risanamento dei debiti.