La condotta
A mente dell’articolo 629 è punito «…chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno ».
Elementi essenziali del delitto sono:
la violenza o la minaccia, la costrizione della vittima ad un determinato comportamento, e, da ultimo, il conseguimento dell’ingiusto profitto con altrui danno.
Nella fattispecie de qua – non ricorrendo ipotesi di contegni violenti – rileva la definizione di minaccia; per essa deve intendersi la prospettazione di un male futuro cagionato dalla condotta dell’agente [1]. Il male minacciato deve sempre essere prospettato alla vittima in alternativa alla attuazione di un comportamento ad essa richiesto, che può consistere in un dare, in un facere o in un non facere [2].
La condotta estorsiva non si esaurisce nella minaccia – la quale rappresenta solo la modalità della coercizione – ma comprende anche l’attività diretta ad indicare alla vittima il comportamento da tenere per liberarsi della minaccia ed evitare il verificarsi del male minacciato. La minaccia estorsiva può connotarsi come esercizio di un diritto: sul punto la dottrina è unanime nel ritenere integrata la minaccia in quei comportamenti che solo apparentemente sono rivolti a realizzare un diritto, ma in realtà mirano ad un obiettivo diverso e confliggente con quello tipico (ex multiis, ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, vol. I, ed. XIII, Milano, 1999).
Integra il delitto in parola la minaccia « di esercitare un diritto – come l’esercizio di una azione giudiziaria od esecutiva – (che) può costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare l’elemento materiale del reato » (Cass. Pen., Sez. II, 16 dicembre 2015, n. 4426) poiché realizza un indebita attività di costrizione finalizzata a procurare un ingiusto profitto. Anche la minaccia dall’esteriore apparenza di legalità, come quella di convenire in giudizio il soggetto passivo, può costituire un’illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 629 c.p. (Cass. Pen. Sez. II, sent. 10 dicembre 1990).
Esegesi pacifica che la minaccia possa anche essere rivolta a soggetti diversi dalla persona che deve assicurare il profitto all’agente, e sulla quale ricadrà il conseguente danno (Cass. Pen., sent. 12 Aprile 1984, in Giust. Pen., 1985, II, 273).
I cennati orientamenti si inseriscono nell’alveo della elaborazione giurisprudenziale della distinzione minaccia giusta – minaccia ingiusta adottata per distinguere i casi in cui la minaccia si concretizza nella prospettazione di comportamento formalmente illecito (es. minaccia di lesioni, percosse, danneggiamento, etc.), dai casi in cui essa consiste nella prospettazione di un comportamento dell’agente di per sé lecito, e quindi inteso in sé stesso come “giusto”, motivando la punibilità della minaccia c.d. giusta con la considerazione che essa diviene “ingiusta” per il fine perseguito dall’agente.
Pur dovendo la minaccia essere idonea ad ottenere l’effetto voluto (e cioè, nella specie, a coartare il soggetto passivo) non si richiede, tuttavia, che la volontà del soggetto passivo sia completamente esclusa, potendo residuare la possibilità di scelta tra l’accettare le richieste dell’agente e subire il male minacciato; potendo la possibilità di autodeterminazione essere condizionata in maniera più o meno grave dal timore di subire il pregiudizio prospettato. Perchè sia integrato l’elemento oggettivo dell’estorsione, da ultimo, occorre un comportamento costrittivo diretto in certam personam, e rivolto ad ottenere la soggezione della vittima, al punto che essa non possa più ritrarsi dalla situazione senza suo danno, ma debba sottostare alla minaccia.
Elemento psicologico
L’elemento psicologico che sorregge la fattispecie incriminatrice è il dolo generico consistente nella consapevolezza e volontarietà di procurare a sé od altri un ingiusto profitto con altrui danno; tale interno psichico, per altro, non costituisce soltanto lo scopo in vista del quale l’agente si determina al comportamento criminoso, ma un elemento della fattispecie oggettiva (Cass. Pen. Sez. II, n. 18380, 21 aprile 2004). Pertanto, la coincidenza tra il voluto ed il realizzato deve estendersi ed abbracciare anche l’ingiustizia del profitto che rappresenta uno degli elementi materiali del reato.
Ingiusto profitto e danno altrui
Principio consolidato in giurisprudenza e dottrina è che la minaccia debba essere ingiusta, caratteristica dedotta, di volta in volta, dalla ingiustizia del male minacciato o dalla ingiustizia del profitto che si vuole ottenere: se, però, facendo riferimento alla ingiustizia della minaccia, si volesse sostenere che questa debba contrastare con particolari norme giuridiche per poter costituire condotta rilevante per l’art. 629 c.p., si direbbe cosa erronea. Che la minaccia ex art. 629 c.p. non debba rivestire alcuna qualifica di illiceità speciale, risulta dalla lettera della norma , che omette qualsiasi specificazione in proposito, nel mentre espressamente qualifica ingiusto il profitto, omissione non casuale, ma rispondente alla logica dell’incriminazione [3].
L’ingiusto profitto può essere estorto anche attraverso la minaccia di esercitare un potere o un’azione di per sé riconosciuta e tutelata dalla legge, come l’esercizio di un’azione giudiziaria. Può definirsi ingiusto il profitto perseguito, nella fattispecie del reato di estorsione, tutte le volte in cui consista in una utilità che non spetta all’agente per legge, ed a concedere la quale la vittima non potrebbe neppure essere obbligata con le vie legali. L’ingiusto profitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente lo consegue, con altrui danno.
Sembra dunque superfluo il riferimento alla ingiustizia della minaccia, dato che l’art. 629 c.p., correttamente, non attribuisce alcun rilievo a tale elemento: pertanto, non si dovrà accertare che essa è ingiusta, ma piuttosto che essa è rivolta al fine di conseguire un ingiusto profitto.
Come detto, la minaccia di comportamenti giuridici formalmente leciti integra egualmente il reato di estorsione: per la pratica applicazione dell’art. 629 c.p., la minaccia diviene contra jus quando «…pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici per scopi diversi da quelli per cui sono stati apprestati dalla legge » (ANTOLISEI F., op. cit., p. 289). Ne deriva che l’esercizio di uno «strumento giuridico legittimo ma posto in essere per conseguire una finalità non conforme a giustizia può integrare il fatto tipico descritto dall’art. 629 c.p.» (TOTARO A., Il ricorso pretestuoso alle vie legali: estorsione?, in Indice Penale, 1999, p. 207 e seg.); analogamente, la giurisprudenza considera pacificamente estorsione «la minaccia dell’instaurazione di una lite, della presentazione di una querela o di una denunzia, dirette a conseguire finalità illegittime».
In quella anche definita estorsione con il mezzo di giustizia, la sussistenza dell’ingiustizia del profitto deve essere accertata indipendentemente dall’ingiustizia o meno della condotta (BONILINI G., CONFORTINI M., Codice penale ipertestuale, Utet, Torino, 2000, pag. 629). Per profitto deve intendersi qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, nel senso che non necessariamente il profitto deve consistere in una somma di danaro, ben potendo consistere in qualsiasi altro bene, purché economicamente valutabile e implicante un danno patrimoniale.
La coartazione ad un determinato comportamento che sia privo di risvolti patrimoniali esula dalla fattispecie dell’art. 629 c.p., rientrando in quella del reato di violenza privata (art. 610 c.p.), ovvero di altre fattispecie a dolo specifico, e l’assenza di un profitto e di un danno patrimonialmente apprezzabile impedirebbero, stante il principio di tassatività, l’applicazione dell’art. 629 c.p..
Interesse tutelato
L’art. 629 c.p. tutela il diritto di ciascuno a disporre liberamente del proprio patrimonio, inteso come il complesso dei rapporti giuridici (personali e patrimoniali) facenti capo al soggetto: ne consegue che tale diritto possa essere leso con qualsiasi azione coercitiva che, «…anche mascherata sotto la forma dell’esercizio di un diritto, di azioni legali o di altri comportamenti leciti, in maniera implicita, larvata, indiretta ed indeterminata idonea ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo» (Cass. Pen., Sez. II, 37526 23 settembre 2004).
L’art. 629 c.p. ha carattere plurioffensivo e presidia sia libertà di determinazione individuale, in ogni atto dispositivo, che l’inviolabilità patrimoniale del singolo.
È indifferente il grado di tutela che l’ordinamento civile appresta a determinati rapporti giuridici, purché sia salvaguardata la libertà di determinarsi e di agire dell’individuo. Profilo problematico in tema di estorsione concerne l’esatta individuazione del limite entro il quale l’actus reus dell’agente, rivolto a perseguire il profitto, possa dirsi lecito, rientrante nel comune commercio giuridico e, quindi, penalmente irrilevante, e ove possa, al contrario, configurarsi quale contegno penalmente sensibile.
Principio discretivo idoneo a definire il limite in parola, come noto, è , nei reati contro il patrimonio, la non spontaneità dello spostamento patrimoniale: tutti i delitti a presidio del patrimonio sono rivolti a reprimere casi in cui, con diverse modalità, si verifichino appropriazioni o utilizzazioni di patrimonio altrui, contro la volontà del titolare del relativo diritto.
Dunque, elemento che rende indubitabilmente punibile il conseguimento di un profitto ingiusto ottenuto con minaccia è la coartazione del soggetto passivo, non la semplice compressione della libertà di agire dell’individuo, ma di efficacia tale da condizionarne realmente la volontà, e da legare direttamente ed univocamente l’atto compiuto alla minaccia ricevuta [4].
Il conseguimento dell’ingiusto profitto costituisce l’evento giuridico del reato, realizzandosi in quel momento la lesione del bene giuridico tutelato, ovverosia, come detto, la lesione della libertà di disporre del proprio patrimonio da parte della vittima.
Tentativo
L’estorsione sarà consumata o tentata in relazione all’avvenuto conseguimento, o meno, del profitto, dunque l’alternativa per l’interprete sarà tra reato consumato o reato tentato, non certo tra la sussistenza o la non sussistenza del reato, poiché, anche ove non si riterrà conseguito il profitto, certamente non si potrà ignorare la illecita attività di coercizione dell’agente. È, inoltre, configurabile anche il cd. tentativo compiuto allorché, pur avendo trovato piena realizzazione la condotta dell’agente, non si sia verificato alcun danno.
[1] A differenza del reato di minaccia (art. 612 p.), nel delitto di estorsione la prospettazione di un male futuro non è fine a sé stessa, cioè formulata al solo fine di intimorire o spaventare, ma diretta ad ottenere dal minacciato un certo comportamento che procuri un profitto all’agente.
[2] «Il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona per l’elemento intenzionale nell’estorsione caratterizzato dalla coscienza dell’agente che quanto egli pretende non gli è dovuto » (Cass. Pen., Sez. II, n. 19124, 19 aprile 2007).
[3] La precisione della lettera della fattispecie legale risalta ancora di più se confrontata con il testo dell’art. 612 c.p. (Minaccia) che, invece, parla espressamente di minaccia di un danno ingiusto.
[4] La inevitabilità della minaccia e la conseguente ineludibilità della coartazione è l’ulteriore elemento che consente di distinguere i casi di trattative economiche lecite da quelle
Avvocato Carlo Zaccagnini